Ogni mattina la sveglia suona, la spegniamo in maniera meccanica, qualche muscolo che si stiracchia e, in maniera apparentemente serena, siamo pronti per un altro giro di giostra. Ormai è pantomima ridicola, abbiamo la morte in 4K e palesiamo una qualità impressionante nella capacità di dissociarci. Non ci tocca nulla, “tanto lì c'è la guerra da sempre”, incontrare l'altro è uno sforzo immane, uno squat con il peso del mondo caricato sul bilanciere.
Incastrati una bavosa e spessa rete di convinzioni per cui "eh ma tanto io cosa posso fare?", "non cambierò di certo io la situazione", il veleno del primato della responsabilità totalmente individuale paralizza di fronte ai missili, i corpi senza vita tenuti in mano da chi ha occhi iniettati di sangue e morte da troppo tempo.
L'unica strada percorribile è staccarsi, fare finta, nascondersi in maniera abile e viscida da ciò che accade, alimentare l'illusione che noi non c'entriamo con tutto ciò che sta succedendo perché comunque domani il corriere ci porterà ciò che abbiamo ordinato online e potremo sfoggiarlo al prossimo raduno sociale.
E non si tratta nemmeno di far emergere quel senso di pena, perché non serve a nessuno tranne a noi per spruzzare dello sgrassatore sulla nostra coscienza: provare a specchiarcisi e sperare di trovare il nostro viso bello lucente.
Lo alimentiamo ogni volta che non affrontiamo la vergogna che emerge dalla consapevolezza di incarnare una gerarchia rispetto a chi concediamo la nostra comprensione ed empatia, ogni volta che ci culliamo nella certezza che tutto ciò che arriva dall'Occidente sia necessariamente giusto ed universale.
Lo combattiamo se smettiamo di pensare che tutto sia così lontano, ma che siamo parte integrante di ciò che osserviamo, le cose non sono lontane, siamo solo noi molto bravi a girare la testa, mangiare pasta e apatia, dormire su cuscini di privilegio e indifferenza.
Siamo così piccoli e cullati nei nostri personali nascondigli che pensiamo di mettere sullo stesso piano l'oppressore e l'oppresso credendo che dopo decenni di stivale schiacciato sul collo una persona dovrebbe gentilmente segnalare di non riuscire più a respirare. Derubrichiamo i buoni e i cattivi inzuppando biscotti mentre ricorriamo a geografie coloniali in cui la centralità dell'Occidente ci illude di stare dalla parte giusta della storia o comunque ci fa sentire comodi.
Il minimo che possiamo fare è informarci, il minimo. Stiamo dentro una bolla di sapone pensando di essere protetti, senza renderci conto che ciò a cui stiamo assistendo creerà nuove ricorrenze, dove ci diremo "Ma com'è stato possibile? Il genere umano non impara mai dalla storia."
Siamo esattamente dentro il momento in cui quel "com'è stato possibile?" sta accadendo e se mettiamo da parte l'idea utopica del gesto unico di qualche divinità suprema non ben specificata capace di fermare tutto questo, allora si apre lo spazio dell'azione collettiva: informarsi, non rimanere in silenzio perché non ce lo possiamo permettere, boicottaggio, partecipazione. Non facciamo finta che gli strumenti non ci siano, al massimo ammettiamo che non vogliamo sacrificare nulla del nostro finto agio che sta seduto sopra vite altrui.
Non siamo persone libere se per continuare a vivere dobbiamo nasconderci così bene da ciò che accade pensando che non ci tocchi. Se riusciamo a funzionare senza la minima difficoltà in questo presente, sta proprio lì il problema. Se questa vita continua ad avere senso esattamente in questi termini allora sta proprio lì il problema.
Non siamo persone libere se per continuare a vivere dobbiamo dissociarci da quanto accade.
Kwame Ture, 1968