Scomporre le geografie del potere per andare oltre il centro

Le bocche si riempiono in maniera piuttosto fastidiosa e arrogante dei termini "inclusione" ed "integrazione" disegnando un'architettura precisa di cerchi concentrici dove il centro ha un corpo preciso, un genere, una cultura, alcune lingue, un modo di - non- aggregarsi, un modo di pensare che scompone continuamente ciò che costitutivamente dovrebbe stare insieme.

Tutto il resto si guadagna un posto all'interno di periferie progressivamente distanti da questo centro.

L'invito a essere incluso è un richiamo pretenzioso, violento e coloniale, che impone di dismettere i panni non graditi all'egemonia del centro (ah, che bello il decoro), ma che soprattutto impone un movimento contrario a quello diasporico fatto di dispersione e impredicibilità geografica.

Vieni, entra, ti accogliamo, ti includiamo, ti integriamo. Però sai alla famiglia del terzo piano la sera arrivano certi odori -

Vieni, entra, ti accogliamo, ti includiamo, ti integriamo. A me sembra sottomissione tutto questo coprirsi -

Vieni, entra, ti accogliamo, ti includiamo, ti integriamo. Non voglio fare di un'erba un fascio, ma è sempre una persona come voi -

Vieni, entra, ti accogliamo, ti includiamo, ti integriamo. Forse sarebbe meglio se mangiassi con la forchetta -

Continua strato dopo strato un progressivo smantellamento, integrare per perdersi, includere per dimenticarsi lungo la strada, l'accettazione da parte del centro si paga con l'oblio. Per questo parole come "inclusione" ed "integrazione" risuonano come volontà imperialiste di annessione, introducono in maniera neanche troppo sottintesa geografie precise di appartenenza, chiedono pegni da pagare, si dimostrano intrinsecamente allergiche a storie che non siano quelle di chi ha determinato l'universalismo, l'oggettività, il metro di paragone.

Fin tanto che il centro propone specchi che deformano il viso dichiarando - sì, sei proprio tu, sei proprio questo - il senso di identità risulta imprendibile. Rimangono contorti esercizi ginnici che impediscono di vedersi se non in termini di mancanza e storture da modificare per renderle accettabili, sbagli da sistemare, spingere nello scaffale l'ennesimo libro, perché sennò altrove non ha spazio. Costantemente in debito, continuamente in definizione (dal centro sia chiaro).

«I am Nigerian because a white man created Nigeria and gave me that identity. I am black because the white man constructed black to be as different as possible from his white. But I was Igbo before the white man came.» Chimamanda Ngozi Adichie, Half of a Yellow Sun

Costitutivamente un prodotto. Impossibile pensarsi senza chi definisce.

Cosa ce ne si fa del centro se quest'ultimo mi vuole solo come suo prodotto, derivazione, costola, una sua proprietà? Se salta questa architettura si crea uno spazio per intessere tutte quelle storie che sono sempre un pezzo in più, quello che non si riesce mai a incastrare, a rendere legittimo.

Perché accanto all'accento romano, napoletano, barese, triestino, trevigiano, c'è okra soup, harissa, injera, mafe, storie di divinità, ci sono ritmi che richiamano sacralità, ci sono lingue che si mescolano. Tutto questo e molto altro insieme al dolore necessario per costruire il concetto di casa lontano da specifiche e fisse coordinate, allo sforzo di tenere in vita storie che sono così lontane, ma in qualche modo così tangibili.

Tutto questo non si include, non si integra, lo si vuole solo ripulire, non si rinchiude, è destinato a rimanere ciò che eccede, inclassificabile.

Doppia elica.