Appartenenza, possibilità, memoria e materia viva

In tempi di appartenenze sfuggenti, mani aggrappate a ideali che spesso sfumano, convinzioni che ci legano e allo stesso tempo creano confini molto chiari tra corpi, sembra mancare un discorso sulla terra. Non intesa come il nome del pianeta che abitiamo, ma proprio la terra, che sia terreno umido e marrone, che sia sabbia, che siano rocce, che sia mare.

Una delle cose che il popolo palestinese, ma non solo, sta insegnando all'umanità intera, quella disposta ad ascoltare per lo meno, è il legame con una terra ed una geografia specifiche. La volontà di ritornare ad uno specifico albero su quella collina, guardare un particolare tramonto conficcato nella memoria all'ombra di un ulivo, passarsi da una parte all'altra della bocca il frutto di quella terra. Il legame del corpo con un territorio, memorie incastonate nei sensi di alcune coordinate.

Ampliare per uscire da noi, perché alla fine cosa possiamo dire di possedere veramente? Se il nostro corpo, la nostra maniera di sentire e percepire si forma in un posto specifico o magari in più posti, possiamo ancora dire di appartenerci al 100%?

Nasco lontano “dalla pretesa di legittimità, che permette ad una comunità di proclamare il suo diritto al possesso di una terra, che diventa così territorio”(), ma piuttosto ho inciso dentro “un vissuto cosciente e contraddittorio dei contatti tra culture”(), la mia identità “non si rappresenta una terra come un territorio da cui proiettarsi verso altri territori, ma come luogo in cui si ‘con-divide’ invece di ‘com-prendere’”(*)

Sono cresciuto in un posto di mare, l'acqua è stata sempre un elemento presente, anche se a lungo mi è stata negato perché il mio corpo e l'acqua nella maggior parte dei casi non potevano stare nella stessa frase a meno che non si trattasse dell’Atlantico o del Mediterraneo; come se la capacità di nuoto scomparisse progressivamente all’aumentare della melanina. I lasciti del razzismo scientifico si sono sedimentati nelle mie ossa, nei miei muscoli e diventavano i miei movimenti incerti, carichi di timori nei confronti del corpo acqua che diventava un ambiente nel quale sopravvivere, più che uno in cui coabitare.

Mi appartengo? Sono io e basta?

L'acqua contiene delle mie memorie, il mio corpo contiene memorie liquide, conoscere il mio corpo nei movimenti all'interno di un corpo più ampio. Constatare la sensazione di sentirmi chiuso se ogni via si collega ad un'altra via, ad una piazza ad un vicolo, ad una salita, ad una discesa. La mia personale percezione di finitezza è il limite tra solido e liquido, un molo, uno scoglio e poi non si può più tenere nulla in mano, al massimo è sostanza da attraversare trattenendo il respiro o al massimo facendolo uscire in bolle più o meno ordinate.

L’acqua mi ha insegnato l’incontro fuori dalla possibilità di possesso, di controllo, non è mio questo mare.

Come potrebbe esserlo se io sono anche il senso di pericolo e attenzione e rispetto di quando il mare è mosso dall'aria, da turbolenze interne che non posso capire o spiegare, ma solo sentire intuitivamente, e in tono perentorio mi invita a stare sulla terra ferma perché lì in mezzo rischierei la vita. Allora sono anche il mare. Capisco la necessità nella mia pelle di essere idratata nell'osservare l'effetto stringente del sale poco dopo che sono uscito dall'acqua. Quindi sono io che mi conosco? È il mare che mi sta insegnando? C'è qualcosa nel mezzo, nel nostro incontro, conoscenza e scambio reciproci, memorie che hanno una geografia ed una materialità. C'è un corpo che respira a certe latitudini - branchie dello spirito -, come si può spiegare la vibrazione alla stessa ottava di un corpo e una terra?

Alcuni di noi possono muoversi ovunque, dimenticandosi di se stessi, avendo la possibilità di chiamare casa qualunque posto decidano. Ma a prescindere dai privilegi di movimento, c'è un richiamo profondo che entra dentro di noi come radici millenarie, materia fatta di chi è arrivato prima di noi, di luoghi in alcuni casi mai visitati.

Ora che le lotte spesso sono prive di corpo, dettate da immateriali accuse e rivendicazioni che volano oltre i fusi orari, la terra sembra qualcosa da voler addirittura superare, o che forse non ha più tanto senso tenere a mente. Ma forse voler ritornare ad un'appartenenza fatta anche di spiagge, mari, colline che si inseguono piano tra salite e discese, venti freddi che muovono alberi spogli, campagne piene di insetti il più delle volte estremamente fastidiosi quanto vitali ad uno schema delle cose più grande di noi, significa anche ritornare a noi stessi.

Ci sono certi luoghi con cui possiamo parlare lingue che non si esprimono nei suoni articolati tra labbra, lingua, denti e gola. Comprensioni e connessioni con il passato. Materia di cui siamo fatti, al pari dei globuli rossi, dei polmoni, delle ossa.

Squarciare il velo che ci vuole entità singolari senza intersezioni e collegamenti alcuni con il circostante, ci potrebbe permettere di guardare a noi come un corpo che si fa terra, terra che si fa corpo.

Un rispetto ed un punto di vista diverso per non farci inghiottire dalla sciocca idea che "la Terra sta andando a fuoco e si sta allagando" come se non fossimo anche noi ad andare a fuoco e ad allagarci, come se non fossero anche le persone venute prima di noi -carne della nostra carne- ad andare a fuoco e allagarsi.

Ancora a dirci noi e basta, come se la terra non insegnasse e non parlasse.