<aside> <img src="/icons/more_gray.svg" alt="/icons/more_gray.svg" width="40px" /> Mistura Allison è ricercatrice, curatrice e storica dell'arte. È la fondatrice di ashikọ, una piattaforma di ricerca visiva ispirata all'Africa e alla sua diaspora. La sua pratica è alimentata dal suo interesse per l'esplorazione della pluralità delle produzioni visive, performative e orali contemporanee che trascendono i canoni non occidentali. Attualmente (2024) è curatrice e coordinatrice di progetti presso Villa Romana a Firenze, dove si occupa di pratiche artistiche transnazionali con particolare attenzione all'arte contemporanea e all'avanzamento di metodologie espositive decentralizzate. Fa parte del collettivo curatoriale di Archive Ensemble, dove co-cura il programma Publishing Practices. Si occupa in particolare di pratiche artistiche basate sulla ricerca, pensando ai processi di narrazione visiva e al movimento, e a come questi possano aiutarci a immaginare nuovi futuri e a sperimentare una costellazione diversa.
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{Fucina} Il tuo lavoro di ricercatrice, curatrice e storica dell'arte fa emergere l'interesse nell'esplorare la produzione artistica contemporanea della diaspora africana, nella parte visiva, in quella performativa e anche come suono. Quali sono le fondamenta sulle quali hai costruito il modo con cui ti navighi queste dimensioni?
{Mistura} Innanzitutto, abbraccio un metodo che privilegia la narrazione polifonica, riconoscendo l'importanza delle molteplici prospettive che emergono dalla Diaspora africana. Questo significa creare spazi in cui la produzione artistica non solo viene esibita, ma anche contestualizzata attraverso le esperienze, le storie e le memorie collettive. L'arte ha la potenzialità di essere un luogo di incontro e di ascolto, un dialogo tra passato, presente e futuro, capace di contenere le complessità delle identità Diasporiche.
Questa visione ispira la mia pratica, spingendomi a esplorare l'arte visiva, performativa e sonora come territori interconnessi, in cui le pratiche artistiche non sono mai isolate ma costantemente in dialogo con i contesti storici, politici e sociali da cui emergono. L'arte diventa così un vessel per contestare le narrative dominanti, per affermare nuove epistemologie e per immaginare mondi possibili.
L'orale, in particolare, è uno strumento potente nella mia ricerca, in quanto rappresenta una forma di espressione che spesso sfugge alle classificazioni tradizionali dell'arte visiva.
Esplorare il sonoro mi permette di navigare le dimensioni immateriali della cultura, di indagare come il suono possa agire come archivio vivente della memoria Diasporica e come possa sfidare i confini tra performance e narrazione.
Fondamentalmente, il mio approccio curatoriale è radicato nella convinzione che il pensiero Diasporico non debba essere confinato a una posizione di alterità all'interno del discorso artistico globale.
Navigare le dimensioni dell'arte contemporanea della Diaspora, sia visiva che performativa, è un processo che richiede un approccio poliedrico.
Prendo spunto dalla necessità di decostruire le narrative eurocentriche che hanno dominato la storia dell'arte e la critica. Questo implica un'attenzione particolare alle modalità attraverso cui la Diaspora africana ha rinegoziato e trasformato identità, cultura e memoria, spesso in risposta a secoli di colonialismo e oppressione. Mi sforzo di co-creare spazi che non solo mostrano queste opere, ma che le inseriscono in un discorso critico che ne rispetti l'autonomia e la complessità.
{Fucina} In questo momento quali elementi del tuo lavoro da curatrice ritieni imprescindibili ogni volta che immagini uno spazio?