Il lutto selettivo è uno degli strumenti attraverso cui il potere si esercita in modo silenzioso ma estremamente pervasivo. Non è solo una mancanza di attenzione, è una dichiarazione di valore. È il modo in cui una società segnala, a se stessa e al mondo, chi fa parte della sua sfera morale e chi ne resta escluso.
La rappresentazione mediatica dei conflitti offre esempi lampanti di questa logica. La morte di un bambino europeo o statunitense è un trauma collettivo. Ogni dettaglio della sua vita viene narrato, le immagini sono diffuse, il cordoglio diventa nazionale. Al contrario, decine di bambini uccisi nei bombardamenti aerei in Yemen, in Siria o a Gaza diventano numeri, “morti collaterali”, voci di un bollettino. Le loro storie individuali scompaiono.
Questa selettività non si limita a essere un’operazione di propaganda, ha conseguenze precise. Una vita che non è degna di lutto non mobilita, non produce conseguenze. È una morte silenziosa, sterilizzata, che non mette in crisi l’ordine simbolico dominante. Al contrario, una vita “degna” ha la forza di smuovere opinioni pubbliche, di generare pressione politica. È in questo senso che il lutto è anche un terreno di lotta.
Nel contesto del genocidio in atto in Palestina, questa asimmetria è da sempre molto evidente. I media occidentali parlano spesso di “scontri”, “vittime degli attacchi”, “danni collaterali”, usando un linguaggio impersonale che distanzia e discolpa.
L’orrore è trattato come se fosse un fenomeno naturale, inevitabile.
Parallelamente, le vittime israeliane vengono presentate con un’identità e una storia precisa: sono padri, madri, bambini, lavoratori. La loro morte è scandalo; quella palestinese è statistica e conseguenza inevitabile. Qui si tratta di rompere la logica binaria che attribuisce a certe morti uno status di tragedia e ad altre quello di fatalità. Recuperare le vite negate al lutto significa, quindi, compiere un atto politico radicale. Significa restituire umanità a chi è stato ridotto a cifra. Non è un gesto pietoso, ma piuttosto una rivendicazione di esistenza.
Uno degli elementi narrativi che definisce questa cornice è la logica del conteggio. Dire che “in un bombardamento sono morti 200 palestinesi” produce un effetto ben diverso dal dire che “una famiglia è stata sterminata nel proprio letto”. Il numero chiude, archivia, conclude. La storia personale apre, interroga, disturba. E il disturbo, in un mondo mediaticamente saturo, è qualcosa che viene evitato in modo strutturale.
La gestione semantica della morte ha un effetto diretto sulla possibilità di mobilitare una risposta politica. La tragedia numerica non genera rabbia attiva. Serve, piuttosto, a creare distacco. Un distacco che permette al potere di continuare a operare indisturbato. Il linguaggio, anche qui, non descrive la realtà, ma la produce, la rende digeribile, la trasforma in narrazione anestetica e funzionale a determinati equilibri.