Come il linguaggio crea e annienta: le strategie linguistiche della marginalizzazione.

Sylvia Wynter, scrittrice e teorica giamaicana, ha radicato il suo lavoro sul ruolo del linguaggio nella costruzione dell’identità e delle strutture di potere, evidenziando come le parole siano effettivi dispositivi attraverso cui si creano e si consolidano gerarchie sociali, definendo chi appartiene pienamente all’umanità e chi ne viene escluso(1).

Il concetto di umanità, così come inteso dalla tradizione filosofica occidentale, è il risultato di una costruzione storica e linguistica che ha operato una distinzione tra soggetti pienamente umani e altri considerati inferiori o addirittura non umani. Questo processo è chiaramente legato alle dinamiche coloniali, in cui le categorie sono state rafforzate e naturalizzate attraverso narrazioni linguistiche imposte dai poteri dominanti. Questa pratica, definita da Wynter come “colonialità dell’essere”, descrive perfettamente il modo in cui il linguaggio è stato - e viene tutt’ora - utilizzato per creare una divisione ontologica tra chi è considerato portatore di razionalità e civiltà e chi, invece, è relegato ai margini della piena esistenza umana.

Questa premessa per mettere un punto fermo:

il linguaggio non è mai neutrale, anche e soprattutto nel discorso mediatico.

La scelta delle parole definisce il modo in cui gli eventi vengono percepiti, influenzando i pensieri delle persone e plasmando la memoria collettiva. L'uso di termini specifici per descrivere le vittime di un conflitto, per esempio, non è mai casuale: parlare di "persone uccise" implica un riconoscimento della loro soggettività e umanità, in cui l’oggetto del discorso è vittima di una controparte, mentre l'uso della parola "morti" le riduce a dati numerici, in cui l’oggetto è vittima di una casualità non meglio definita.

Il risultato di questa operazione è una rappresentazione distorta: l’individuo perde la sua identità, la sua storia, il suo diritto al riconoscimento, e ciò facilita una percezione pubblica in cui la violenza contro quel gruppo sembra normale, o addirittura inevitabile. Dal punto di vista analitico, questi meccanismi mettono le radici in una serie di scelte discorsive che hanno profonde implicazioni politiche e sociali. La deumanizzazione linguistica non è solo un fenomeno retorico, ma un atto che condiziona il modo in cui la società percepisce e reagisce agli eventi.

Questo meccanismo è stato analizzato da molti studiosi nel tempo, Noam Chomsky e Edward S. Herman, per fare un esempio, hanno parlato a fondo di come il linguaggio venga utilizzato dai media per legittimare o delegittimare attori politici e sociali(2). Il concetto di "danni collaterali", che abbiamo sentito spesso in questi anni, è un eufemismo che riduce la morte di civili a una inevitabile conseguenza della guerra, rimuovendo ogni implicazione etica o morale dall'evento stesso. L'uso selettivo di questi termini in contesti geopolitici diversi, come la sistematica deumanizzazione delle vittime palestinesi rispetto alla più empatica rappresentazione di altre vittime di guerra, rivela la presenza di un'agenda politica precisa e minuziosa.

Quando un gruppo viene privato della propria identità linguistica e rappresentato solo attraverso termini astratti o numerici, si creano le condizioni per la sua marginalizzazione e oppressione.

Il linguaggio, dunque, non è un dettaglio secondario, ma uno strumento attraverso il quale il potere esercita il proprio controllo sulla percezione pubblica.

Orlando Patterson, nel suo libro Slavery and Social Death(3), introduce il concetto di “morte sociale” per descrivere come il sistema schiavista annullasse l'identità dei soggetti riducendoli a mere proprietà, mettendo in pratica un’attenta strategia linguistica di disumanizzazione che, nel tempo, ha contribuito a normalizzare l'oppressione e a giustificare la violenza sistematica contro intere popolazioni.

Nel presente, il genocidio in atto in Palestina offre un chiaro esempio di come il linguaggio sia utilizzato per modellare la comprensione degli eventi, in una disparità linguistica che ha abilitato e rafforzato un sistema di valori impliciti capace di spostare il peso degli eventi e giustifica l'uso della violenza contro certi gruppi a scapito di altri(4).

Judith Butler ci viene in aiuto, in questo contesto, evidenziando come alcuni gruppi siano considerati più degni di lutto rispetto ad altri(5). Secondo Butler, il modo in cui le vittime vengono descritte nei media determina se la loro morte sarà percepita come una tragedia o come un semplice incidente di percorso. Il concetto di “vite degne di lutto” ci riporta al concetto di costruzione della realtà attraverso il linguaggio: le vittime che ricevono un trattamento disumanizzante nei media vengono private non solo della loro identità, ma anche del più banale diritto a essere piante e ricordate.

Il peso del linguaggio, che si tratti di descrivere un conflitto, un gruppo di persone, un evento storico, ha conseguenze dirette sul modo in cui il mondo risponde a queste situazioni o alla loro costruzione di significato. La consapevolezza critica dell'uso del linguaggio, nei media e non solo, diventa un atto politico, un’azione necessaria per disinnescare le narrazioni distorte e ormai sistematizzate di questa società.

«Se avessimo la parola, se possedessimo il linguaggio, non avremmo bisogno di armi.» Ingeborg Bachmann