Dalla separazione alla contaminazione, per un un nuovo paradigma

Dentro i nostri corpi sono inscritte storie presenti, passate, future, sofferenze, abbracci, l'odore di quella stanza in quella parte precisa della casa, il cibo preferito e molto altro ancora. Non è tutto nostro, non siamo padroni di tutto ciò che sentiamo, tutto si forma, si distrugge, prende nuovi aspetti nel mezzo, in una zona dai contorni poco definiti che è la relazione, quell'intermezzo che ci collega all'altro, umano e non.

Quello spazio è tendenzialmente molto buio, ricoperto di punti di domanda, spazio che scappa, sfugge alla definizione, alla chiarezza, alla possibilità di essere determinato come vorremmo. Il movimento torna, allora, ad essere egoriferito, nei termini in cui poterci dire determinanti è una boccata d'ossigeno. In quel movimento possiamo dire di possedere, di essere, di avere, darci confini precisi che urlino per noi la distanza tra noi e loro.

L'indeterminatezza dell'incontro è oramai insostenibile, la mescolanza senza l'idea di prevalere è impraticabile, la possibilità di testimoniare come il tutto sia maggiore della somma delle parti rimane nella sfera dell'indicibile.

Cresce nelle viscere una scomodità pressante, nel momento in cui qualunque esperienza di vita ci obbliga a stare nella dimensione dell'incontro. L'aria che si respira in Occidente è un paradigma che impone il possesso, non sembra esserci spazio per un discorso sull'incontro.

La storia dell'Occidente trasuda possesso per convertire l'esperienza altrui in marginalità e inferiorità. La differenza non viene incontrata, ma l'impulso a creare una gerarchia ponendosi nella posizione de "l'universale" ordina il fagocitare con violenza l'altro, imponendogli un modo di pensare e guardare al mondo. Non esiste differenza senza che essa richiami la separabilità: il contatto separa, non arricchisce, infetta semmai ("one drop rule"). E nel momento che le dimensioni sono separate entra in campo la gerarchia sopra citata: quale dimensione vale di più? Quale di meno? Ciò che all'occhio occidentale risulta sconosciuto, indecifrabile, poco chiaro, alieno in alcuni casi deve essere reso chiaro, trasparente, ripulito dell'inafferrabile per poi essere violentemente spinto alla periferia, inferiore, tenuto a bada con la forza. E più forza si utilizza per tenere l'alieno al margine, più la risposta che ne scaturirà sarà inevitabilmente intrisa di quella violenza utilizzata in prima istanza.

Di nuovo tutto si crea nell'incontro, solo che siamo fin troppo educati a considerare l'incontro come possesso, lasciando spazio a quell'impulso di inglobare l'esperienza altra per sputarla rimodellata dai canoni occidentali, da quello sguardo che disumanizza, quando non uccide.

Una modalità di pensiero che è allenata all'esclusione utilizzando la particella "o", dimenticandosi la particella "e": in questo modo l'esperienza di conoscenza si tramuta in "questo o quello", la storia o la sua negazione. E così per il corpo altro non rimane che ridurre la propria complessità in nome della chiarezza richiesta al fine di rendere la differenza visibile, comprensibile e controllabile. Diventa il "ma da dove vieni veramente?" perché un certo corpo che parla in una certa maniera diventa qualcosa che sfugge alla categorizzazione occidentale. Sapere che si può far tornare tutto ad un'idea sommaria di continente tranquillizza, rimette nuovamente quello spazio che serve per dire "noi" che suona così tranquillo e rassicurante, in opposizione al "loro", poter raccogliere la sporcizia in un angolo della stanza.

Esistono solo linee che si incontrano, contaminandosi senza che ciò significhi frammentare o diluire, in quell'incrocio esplode e si ramifica quello che sfugge a ciò che c'era prima, la violenta testardaggine con cui ci si oppone a questo processo alimenta le generalizzazione come totalitarismo. Pac-man che non lascia nulla dietro.

Il possesso rende il velo solo e unicamente uno strumento di oppressione.

Il possesso accartoccia l'eredità culturale immensa del continente africano ad un paesello martoriato da guerre e infanti dalle pance gonfie.

Il possesso giustifica la gerarchia del concetto di civiltà.

Il possesso legittima l'omicidio di chi reagisce perché lo stivale sul proprio collo impedisce di respirare.

Il possesso spiega l'utilizzo del termine scoperta.

Il possesso avvalla l'indifferenza verso casa nostra che contemporaneamente va a fuoco e si allaga.

Il possesso mira a normalizzare linguaggi degradanti e violenze nei confronti del corpo socializzato donna.

L'incontro non generalizza per possedere, ma esplode e si dirama nella sua stessa esplorazione. Di che conoscenza si può parlare se non è declinata in termini relazionali?

Per quanto nell'incontro si possa sentire la terra che manca sotto i piedi e per quanto le sicurezze acquisite precedentemente si possono sgretolare in questo processo, la modalità per poter guardare veramente all'Altro rimane radicata in quello spazio di mezzo.

Quella zona continuerà ad essere fertile e piena di semi.

«Accettare le differenze, sicuramente significa sconvolgere tale gerarchia di valori. Io “comprendo” la tua differenza, cioè la metto in rapporto, senza gerarchizzare, con la mia norma. Ammetto che tu esista nel mio sistema. Ti creo nuovamente. – Ma forse dobbiamo smetterla con l’idea stessa di una scala di valori. Commutare ogni riduzione.» Glissant, É. (2019). Poetica della relazione: poetica 3. Quodlibet.