Riconoscere il problema culturale della violenza

Secondo il portale femminicidioitalia.info, nei primi sei mesi del 2024 si sono verificati diciotto femminicidi. Il sito non si occupa solo di tenere il conto di questa vera e propria mattanza ma anche di registrare quelle notizie che spesso non arrivano sui giornali nazionali perché considerati fatti di cronaca locale o perché riguardano persone marginalizzate (immigrate, prostitute ecc.) nei confronti delle quali la violenza è minimizzata o invisibilizzata.

Se si scorrono le notizie raccolte con tenacia dal sito è possibile leggere di percosse, di segregazioni, di violenze sessuali e minacce, di tentativi di strangolamento e lesioni. I fatti possono essere accaduti in Sicilia come in Trentino Alto Adige e coinvolgere la più assoluta varietà di soggetti. L’unica costante è il genere. Stefano Pagliarini, di professione giornalista, usa i suoi canali social proprio per raccogliere e dare spazio a queste notizie, fatti di cronaca che non fanno abbastanza scalpore da finire in prima pagina ma restituiscono, forse ancora di più, la gravità e la pervasività di un fenomeno che, nonostante i proclami dei governi, presenti e passati, continua ad essere fuori controllo.

Davanti a questi episodi di violenza - gravi ma non abbastanza da cagionare la morte della vittima - persone comuni e professionisti, social e programmi televisivi si affannano a ricercare le presunte motivazioni in grado di spiegare l’accaduto. Così, se per gli autori del maltrattamento subentrano spesso giustificazioni di carattere sociale - è stressato, ha perso il lavoro, la paternità gli sta stretta ecc. - che scatenano il famoso (e inesistente) “raptus”, le motivazioni che spiegano il comportamento femminile si riconducono quasi sempre a cause psicologiche: è una donna fragile, sottomessa e soggiogata dalla sua presenza, dipendente dalle sue attenzioni.

Negli anni Settanta del secolo scorso, la psicologa Leonore Walker ha studiato i meccanismi psicologici che caratterizzano la violenza intrafamiliare. Essa si manifesta, secondo l’autrice, attraverso un vero e proprio ciclo che porta la vittima ad essere manipolata e invischiata nella relazione col maltrattante, una persona che nella stragrande maggioranza dei casi può sembrare, da fuori, un “uomo perbene”. La violenza si sviluppa così attraverso una dinamica che porta a accumulare tensione, generando nella vittima uno stato continuo di apprensione nel tentativo di controllare la situazione evitando che degeneri.

Nonostante l’impegno, la violenza esplode ugualmente: può essere uno schiaffo o, man mano che il ciclo si ripresenta, un episodio più grave e prolungato nel tempo. Successivamente, il maltrattante tende a riportare la tensione sotto i livelli di attenzione scusandosi, promettendo che non capiterà mai più e dedicando alla partner attenzioni e gesti di tenerezza, fino al momento in cui il ciclo si ripropone daccapo.

La conoscenza e lo studio del ciclo della violenza ha contribuito a portare molta attenzione all’interno della coppia, alla relazione tra i partner e ai loro meccanismi psicologici, lasciando fuori tutto quello che alimenta questo processo. Gli aspetti educativi e sociali sono spesso considerati di secondaria importanza, tuttavia sono essenziali al mantenimento di ogni dinamica di violenza.

Non è possibile, per esempio, non considerare l’educazione che uomini e donne ricevono.

Come ricorda il filosofo Lorenzo Gasparrini, sia nei libri che nella continua opera di divulgazione sui canali social, a tutti coloro che sono socializzati al genere maschile è richiesto più o meno implicitamente di occupare la posizione apicale della gerarchia sociale. Per farlo, è necessario aderire a un preciso modello che respinge ogni atteggiamento ed emozione considerata femminile esaltando un’ideale di maschilità predatoria e aggressiva.

Il sistema di potere nel quale tutte le soggettività si trovano immerse - il patriarcato - favorisce tutto questo insegnando agli uomini a servirsi delle donne - da un punto di vista emotivo, sessuale, familiare - considerandole oggetti di proprietà.

Le donne, viceversa, sono incoraggiate a incarnare un modello di docilità che insegna loro ad assoggettarsi alle richieste di chi, per legge, viene ancora considerato il “capofamiglia”. Si tratta di un ideale pericoloso perché, come ricorda la filosofa Susan Sontag, è connotato da comportamenti infantili, passivi, immaturi. Per piacere agli altri, sostiene Sontag, le donne sono condannate a restare bambine per sempre, rinunciando a raggiungere quell’autonomia - sul piano personale, economico, sociale - propria del mondo adulto.

Se gli aspetti educativi subentrano ex ante, perché insegnano fin da subito a bambini e bambine - futuri uomini e donne - ad aderire a certi comportamenti, il controllo sociale subentra ex post, quando il fatto violento si è verificato.

In una recente puntata della trasmissione Chi l’ha visto, una donna, intervistata in merito alla violenza subita da un suo ex, ha dichiarato che non è stato facile denunciare l’accaduto. Le donne devono sapere, diceva, che denunciare significa non essere credute, essere “ispezionate” alla ricerca di qualcosa - una traccia del passato, una macchia sulla propria condotta morale - che possa metterne in dubbio l’attendibilità. Significa, anche, perdere un sacco di relazioni affettive e amicali. Chi racconta pubblicamente di aver subito violenza subisce quel processo che tecnicamente si definisce vittimizzazione secondaria, che si verifica quando le istituzioni e le persone vicine alla survivor preferiscono tutelare se stesse, prendendone più o meno dichiaratamente le distanze.

Se è vero che il fenomeno è fuori controllo, come dicevamo all’inizio, ciò è dovuto non solo ai fattori individuali, psicologici, che caratterizzano chi agisce o subisce la violenza. La causa principale che rende il meccanismo della violenza di genere così pervasivo è costituita da quelle dinamiche sociali che si preferisce non vedere pur di non cambiarle. Abbiamo bisogno di ripartire da qui, modificando la percezione sociale del fenomeno, cambiando i parametri su cui impostiamo l’educazione - processo che, è bene ricordarlo, non avviene solo nella prima infanzia - di uomini e donne.

Focalizzarsi sugli aspetti individuali porta la violenza a essere considerata come una questione privata. Tuttavia, è esattamente il contrario e per questo abbiamo bisogno di trovare soluzioni collettive. Riconoscere il peso delle dinamiche socio-educative è alla base di questo processo.